Speranza di vita U.S.A.

Negli Stati Uniti d’America la speranza di vita della popolazione diminuisce.

Negli Stati Uniti la speranza di vita della popolazione ha raggiunto un massimo – quasi 80 anni – e inizia a diminuire. I progressi della medicina tecnologica e i nuovi farmaci, anche se sempre più efficaci, non riescono a contrastare gli effetti del cibo spazzatura sull’incidenza delle patologie croniche legate all’obesità. Le statistiche nazionali mostrano che nel 2015 i tassi di mortalità sono aumentati dell’1,5% rispetto al 2014 (rapporto CDC 2016). Aumentano praticamente tutte le cause di morte (malattie cardiache, ictus cerebrale, malattie neurodegenerative, malattie renali e polmonari) eccetto le morti per cancro. Il fenomeno è più marcato nelle contee dove l’obesità è più prevalente. Si prevede che questa tendenza aumenterà drammaticamente quando i bambini obesi di oggi diventeranno adulti.

In Europa e in Italia la speranza di vita fino a pochi anni fa continuava a aumentare – ci stiamo avvicinando agli 85 anni – ma anche da noi l’aumento delle malattie croniche e la crisi dei sistemi sanitari ne sta rallentando la crescita. L’aumento della speranza di vita non è però accompagnato da un aumento della qualità e dell’autonomia di vita delle persone anziane. La soluzione non potrà essere che la promozione della prevenzione primaria delle patologie associate all’obesità e al cibo spazzatura, una soluzione che implicherebbe però decisioni di politica economica che i governi non hanno ancora il coraggio di prendere.

Nel corso dell’ultimo secolo la speranza di vita delle popolazioni occidentali è aumentata moltissimo, inizialmente soprattutto grazie alla diminuzione della mortalità infantile, alla scomparsa della fame, alla riduzione dei morti in guerra, più recentemente per la sempre maggiore disponibilità di farmaci e tecnologie efficaci per ritardare le conseguenze mortali di ipertensione, dislipidemie, diabete, trombosi, ecc. e per prolungare la sopravvivenza di malati cronici. Decine di milioni di persone, negli Stati Uniti come in Europa, dipendono da farmaci sempre più potenti e costosi per abbassare i livelli plasmatici di colesterolo, trigliceridi, glucosio, per ridurre la pressione arteriosa, per contrastare la crescita di tumori, da procedure chirurgiche per ricanalizzare arterie occluse dall’aterosclerosi e da sofisticate tecnologie per compensare insufficienze renali, epatiche, respiratorie.

Le implicazioni economiche di questo stato di cose sono tali che risulta difficile promuovere strade alternative di prevenzione primaria delle malattie croniche, che ridurrebbero il mercato dei farmaci e della tecnologia medica. D’altro canto, tuttavia, gli effetti economici delle malattie legate all’obesità e allo stile di vita occidentale implicano enormi costi per i sistemi sanitari, in difficoltà in tutti i paesi, gravi perdite di produttività per l’assenza dal lavoro, crisi economiche che compromettono i programmi di investimento in infrastrutture sociali che potrebbero contribuire alla prevenzione (scuole, trasporti, strutture sportive, ricerca).

Un editoriale su JAMA che commenta l’ultimo rapporto del CDC che annuncia la riduzione della speranza di vita riporta che l’epidemia di obesità è in buona parte la conseguenza dell’ottusità della scienza della nutrizione e di specifici interessi commerciali. Per anni i nutrizionisti hanno sostenuto che le calorie sono tutte uguali e che per perdere peso è sufficiente assumerne di meno con il cibo e consumarne di più con l’attività fisica. È quindi solo questione di responsabilità individuale e l’industria alimentare che reclamizza cibo spazzatura non ha alcuna responsabilità: possiamo consumare tutte le bevande zuccherate, carni conservate e farine raffinate che vogliamo se riduciamo il consumo di altri cibi e se facciamo esercizio fisico.

In realtà le cose stano ben diversamente. La ricerca scientifica sta mostrando che i cibi che mangiamo influenzano il senso di fame, la produzione di ormoni, il metabolismo basale ( il consumo energetico a riposo) e l’espressione genica (nel senso che specifiche sostanze e combinazioni alimentari accendono e spengono specifici geni) con meccanismi indipendenti dalla quantità di calorie che veicolano. La semplice riduzione del consumo di grassi – il metodo più semplice per ridurre le calorie, e più utilizzato dai dietologi – fa anche ridurre il consumo basale di calorie. Ciò non succede riducendo il consumo di carboidrati e proteine. Zuccheri semplici, farine raffinate e altri carboidrati ad alto indice glicemico fanno ingrassare mentre cibi grassi come nocciole, mandorle, semi oleaginosi e cioccolato non hanno questo effetto e in moderata quantità aiutano a dimagrire.

I grandi studi prospettici europei e americani hanno mostrato che piuttosto che carboidrati e grassi è il consumo di proteine che favorisce l’aumento di peso. Mediamente circa il 15-16% delle calorie che mangiamo vengono dalle proteine (è quasi il doppio della quantità che ci necessita): chi ne mangia di più ingrassa. Le diete esageratamente iperproteiche fanno dimagrire perché costringendo le cellule a bruciare proteine intossicano il centro dell’appetito, ma speso chi fa queste diete poi ingrassa più di prima perché dopo qualche mese non ce la fa più a continuare una dieta così sbilanciata, riduce le proteine e si situa magari al 20-25% delle calorie, cioè ai livelli proteici che fanno ingrassare.

L’editoriale di JAMA conclude che occorre investire di più nella ricerca sull’obesità (ricerca con fondi pubblici perché non interessa nessun finanziatore privato), ma che non sono necessarie nuove scoperte scientifiche per intraprendere provvedimenti significativi di sanità pubblica, con tasse sul cibo spazzatura, sussidi per i produttori e i distributori di cibo sano, proibizione della pubblicità dei cibi industriali per i bambini, informazione, rivoluzione dei menu scolastici, ripristino dell’educazione fisica e sportiva nelle scuole.